Quando ho letto della notizia del suicidio del 14enne di Latina stavo scrollando su Instagram, immerso nel più classico degli “effetti dopamina” tipici dell’approccio anestetizzante dei social media.
Viviamo quotidianamente dentro una bolla sociale che ci illude di essere presenti, ma in realtà ci allontana dalla realtà. Sembra come se avessimo perso la capacità empatica, intesa nel senso più stretto del termine.
È quella nata e formulata nella società greca, chiamata “empatheia”: è condivisione del dolore, percezione dell’altro in quanto altro. Oggi, invece, in un contesto di estremo narcisismo sociale, riusciamo unicamente a toccare con mano il nostro dolore, non quello altrui.
Prima di incrociare la notizia di Paolo nella mia homepage avevo appena terminato di approfondire alcuni commenti relativi alla morte di Charlie Kirk, un caso non molto dissimile per atteggiamento e per consuetudini antropologiche da quello di Paolo.
Anche lì, nelle sezioni commenti delle piattaforme social, sembra che la percezione del dolore altrui sia completamente scomparsa, ridotta a una manciata di lettere prive – per chi le scrive – di significato.
Il momento peggiore, però, lo vive chi quelle parole le decodifica. La decodifica del messaggio – uno due più elementari atti della comunicazione interpersonale – diventa troppo spesso un macigno da reggere ogni giorno.
È la stessa terribile decodifica a cui era costretto, ogni giorno, Paolo Mendico, che a 14 anni cade nel baratro del bullismo adolescenziale. Un turbinio di aberrazioni verbali che inevitabilmente inficiano una crescita – già vulnerabile di per sé – andando ad acuire le più tipiche percezioni di un 14enne.
Paolo non si è tolto la vita soltanto per i commenti negativi. Il gesto di Paolo è figlio di una società anestetizzata, in overdose di morfina dell’empatia. Mentre ci si affolla per rimanere eccitati dal dolore altrui, in una vera e propria corsa alla pornografia del negativo, abbiamo perso la capacità di provare reverenza e timore dinanzi al dolore.
La società liquida teorizzata da Bauman ha reso i rapporti sociali ancora più inconsistenti e superficiali, in cui ciò che manca è una cultura fondata sull’educazione ai sentimenti, sulla capacità di riconoscere e rispettare l’altro nella sua vulnerabilità.
La responsabilità sociale, però, non può essere delegata esclusivamente alle istituzioni, mentre cresce il potere delle piattaforme digitali. Puntare il dito soltanto contro scuola, famiglia, docenti o dirigenti, significa eludere il problema centrale: noi stessi. Con i nostri comportamenti quotidiani contribuiamo a edificare una società che non guarda più all’alter, ma che si piega su un ego sempre più ingombrante.
Sembrerà radicale, ma non è un semplice problema generazionale. Sarebbe estremamente semplicistico ridurlo a un’asserzione del genere. È un problema sociale che riguarda chiunque e in cui la consapevolezza, da sola, non basta. Altrimenti domani Paolo sarà Giovanni, poi Sofia, poi Marco e infine Vanessa. E non deve più toccare a nessuno.




