Quando nasciamo veniamo immersi in un sistema di convenzioni che non abbiamo scelto: ci viene assegnato un nome, un cognome – quasi sempre quello di nostro padre -, un colore ben preciso che determina il nostro sesso, un rito laico o religioso che ci colloca nel mondo. Poi cominciamo a crescere.
Subito scopriamo cosa significa far parte di un gruppo, con le sue regole implicite e i meccanismi sociali che ci spingono, spesso in maniera impercettibile, all’omologazione. La scuola non è l’unico contesto che ci plasma in questo senso: lo fa anche la famiglia, lo sport, la socialità più generica.
Non siamo noi a determinare il luogo né l’ambiente in cui nascere, ma ne veniamo profondamente influenzati. Questo diventa infatti la matrice dei nostri comportamenti, delle consuetudini antropologiche all’interno di ogni tipo di rapporto interpersonale che sviluppiamo. Tendiamo a uniformarci, guidati una delle paure più istintive e primordiali della storia dell’uomo: l’isolamento sociale.
Ma cosa intendiamo, però, quando parliamo di “isolamento”?
Esiste un isolamento volontario, nel momento in cui tentiamo di sottrarci alle convenzioni imposte dall’alto, e un isolamento subito, che si concretizza quando ci sentiamo – fisicamente o emotivamente – esclusi da un preciso gruppo sociale nella nostra quotidianità. Entrambi i momenti ci ricordano, tuttavia, che isolarsi significa esporsi. Ma non è sempre un male.
In ogni modo, ad oggi l’isolamento totale non sembra essere più raggiungibile se non con mezzi estremi. Siamo circondati da strumenti che rompono questa condizione, sia se viene imposta dagli altri sia da noi stessi. Una notifica, un messaggio, una qualunque condizione digitale mitigano questo preciso stato psicologico.
Esso, infatti, diventa effimero nel momento in cui spegniamo il concetto di diversità all’interno delle nostre personalità individuali e collettive. Isolarsi assume, quindi, un significato più profondo e – si spera – replicabile: diventa un atto di libertà.
Mi piace pensare che “Isolarsi” significherà avere il coraggio di dire di no, di rischiare, di distinguersi dal pensiero unico. Non con fanatismi né estremismi, ma con la consapevolezza che laddove esiste diversità esiste una concreta speranza.
Isolarsi significa, però, anche eseguire l’operazione inversa: riconoscere e accogliere le diversità altrui e rimettere in discussione se stessi. Perché oggi, in un paradosso evidente da far invidia anche alle teorie di Zenone, essere isolati significa essere diversi, nella misura in cui ogni giorno dimentichiamo cosa sia l’autenticità.
Viviamo sotto l’ombrello delle aspettative, personali e sociali, intrappolati in una roboante macchina da performance che misura ogni passo, ogni scelta, ogni caduta e ogni traguardo. Spesso, invece di farci osservare dagli altri, dimentichiamo di guardare dentro noi stessi.
Allora voglio credere che la più semplice diversità cominci dall’aprire la finestra della propria camera, alzare gli occhi al cielo e guardare le stelle. Capiamo quanto siamo piccoli e allo stesso tempo irripetibili nell’universo. In quella consapevolezza comprendiamo come l’isolamento possa avere tante sfaccettature positive, diventando il primo passo verso una irriducibile unicità.
Perché, in fondo, nessuno di noi sa cosa significa essere diversi. È arrivato il momento, come generazione, di cambiare e scoprirlo insieme.




